Si sceglie di morire quando dentro non c’è più vita
di Michele La Pusata
Sulla vicenda di dj Fabo sento fortemente di voler esprimere il mio stato d’animo.
Ho ascoltato il suo appello in tv, ho cercato di capire le sue ragioni più profonde.
Ho ammirato la lucidità, la determinazione e l’ironia con cui si rivolge al giornalista e alla compagna; scherza dimostrando una forte e vitale personalità, un grande rispetto per la vita.
Con grande dignità non ha chiesto di morire manifestando pubblicamente, in modo pietoso, le sue sofferenze al fine di suscitare consenso alla sua scelta.
Non lo ha fatto in uno stile tanto caro agli Italiani, cioè quello stile strappalacrime alla De Filippi, di cui amiamo struggerci il sabato sera. Non ha fatto spettacolo, eppure lo sapeva fare, era il suo mestiere. Ha comunicato le sue ragioni in modo nudo e crudo, niente di più, niente di meno. Non posso muovermi, non ci vedo e ho dei terribili dolori, la mia vita non ha più colore, è tutto nero.
Per un spettatore superficiale non ci sono state le condizioni per schierarsi a favore del fine vita, il tizio è stato poco convincente – verrebbe da dire – sembrava persino felice di andare a morire.
E’ istintivamente naturale, giusto e anche doveroso schierarsi a sostegno della vita senza se e senza ma, perché siamo portati naturalmente a sostenere che “solo alla morte non c’è rimedio“ e di conseguenza “ finché c’è vita c’è speranza”.
Ma, è solamente nel momento in cui ci troviamo a vivere in prima persona una situazione tanto difficile, in cui l’unica speranza è che arrivi la morte a porre fine a tutta quella sofferenza che ci impedisce di vivere con quel minimo di dignità necessaria e indispensabile, solamente quando abbiamo in mano tutti gli elementi siamo nelle condizioni di esprimere e operare le nostre scelte, sino ad allora non saremo in grado di vedere le cose dalla giusta prospettiva.
Fino a quando la nostra collettività tratterà il problema in senso astratto e generalistico, anteponendo dogmi religiosi o contrapposizioni politiche, trascendendo dalla sfera strettamente personale del singolo individuo, non è nelle condizioni di trovare la giusta soluzione.
E’ dentro ognuno di noi che va ricercata la risposta, ogni singolo uomo ha il dovere di interrogarsi su “cosa farei al suo posto”? Qual è il limite oltre il quale la vita non è più vivibile dignitosamente? Vivere è una situazione legata esclusivamente ad azioni fisiologiche? Basta solamente poter respirare, mangiare, bere e andare di corpo per poter definirci vivi? Quando il dolore fisico impedisce al nostro animo di librarsi in volo per godere armoniosamente della bellezza del creato o dell’affetto dei propri cari, possiamo definirci vivi? Quando vivere diventa tortura e quando quella tortura deforma la nostra percezione di spazio e tempo, stronca i sentimenti e tutto diviene dolore e rabbia, in queste condizioni siamo sicuri di essere vivi? E cosa possiamo desiderare maggiormente in questo caso se non la pace Eterna?
Nella sofferenza, è la pace che si desidera fortemente, non la morte. La morte in questo caso è operatrice di Pace. Secondo ognuno di voi, Cristo sulla croce cosa invocava se non la pace Eterna?
Io da dieci anni convivo, insieme alla mia famiglia, con la Sclerosi Laterale Amiotrofica, da otto non mi muovo più autonomamente e da quattro vivo attaccato al respiratore e mi nutro artificialmente. Sono innamorato della vita e vivo la mia condizione felicemente. È la mia vita non la cambierei con quella di nessun altro.
Vivo una vita quanto più possibile normale, grazie alla famiglia e agli amici che con immenso amore e altrettanto sacrificio si sostituiscono alle mie parti difettose.
Anch’io in passato ho avuto pensieri di morte, oggi grazie a Dio non soffro di dolori particolari, e quindi ho voglia di godermi ciò che di buono la vita può ancora offrirmi.
Però, mentre nella mia vita precedente sostenevo il sì incondizionato alla vita, oggi mi sento di supportarla, ma tenendo conto di tutti i se e tutti i ma, in sostanza, se le mie condizioni dovessero aggravarsi a tal punto da divenire insostenibili sia per il mio istinto vitale che per la mia ragione, vorrei avere la possibilità di autorizzare il medico a staccare il respiratore, con la stessa facilità con cui lo autorizzai ad attaccarmici.
Credetemi, il solo fatto di trovarsi a dovere decidere, sapendo di non avere la possibilità di rivedere in seguito la propria decisione, ha prodotto tantissime vittime…ne ho conosciuti tanti e ne sono addolorato, perché forse, se avessero avuto questa possibilità qualcuno sarebbe ancora vivo.
Alle istituzioni consiglierei di supportare la difesa della vita, non come uno slogan, ma in modo concreto, garantendo assistenza adeguata a malati e relative famiglie, la carenza assistenziale provoca ad oggi il maggior numero di morti, da parte di quelle persone che non accettano di ricorrere al respiratore perché sono sole, questo per me è il vero suicidio di stato, perché diretta conseguenza dell’abbandono.
Garantire il diritto di scegliere non significa istigazione o liberalizzazione del suicidio, ma, semplicemente godere umanamente del proprio libero arbitrio fino in fondo.
Alle istituzioni, spetta quindi, il compito di assistere dignitosamente chi vuole vivere, ragionare con chi pone degli interrogativi e dare Vita Eterna a chi responsabilmente e a ragion veduta la chiede. Tutto il resto è bigottismo e sciacallaggio.
Infine, dico che spetta singolarmente ad ognuno di noi rispondere a questi interrogativi, senza delegare o permettere ad altri di pensare e decider al posto nostro… In fondo è rinunciando a pensare che si comincia a morire!