Pierpaolo Donati. Il volontariato? Un bene comune relazionale
Il volontariato, spiega il sociologo, «è un bene relazionale in sé da cui scaturiscono altri beni relazionali, come l’inclusione sociale, la solidarietà, la pace, per il fatto che consiste di una rete sociale che genera e fruisce assieme di un bene comune che non potrebbe venire all’esistenza senza questa rete relazionale, la quale non ha sostituti funziona»
Che cosa rende così importante quella rete di solidarietà, passione, competenze che definisce il volontariato? L’essere, ci spiega il professor Pierpaolo Donati, un bene relazionale capace di generare altri beni relazionali.
Un concetto importante quello di bene relazionale che Donati ha affrontato nei suoi lavori, tanto in chiave sociologica, quanto in chiave antropologica e persino teologica (ricordiamo il titolo di un suo libro particolarmente affascinante: La matrice teologica della società civile, Rubbettino 2021). Al tempo stesso, però, spiega Donati il volontariato si distingue dall’economia civile perché «sorge dalla solidarietà nelle reti primarie e secondarie del mondo vitale, mentre le imprese civili apprezzano i beni relazionali per il loro ruolo di umanizzazione del valore economico»
Proprio al volontariato – e all’appello lanciato affinché l’Unesco lo riconosca patrimonio immateriale dell’umanità – è dedicato il numero di luglio-agosto di Vita.
L’essenza del volontariato
Possiamo considerare il volontariato come un bene relazionale? Lei ha introdotto questo termine negli anni Ottanta, ci aiuta a comprendere meglio questa definizione, “bene relazionale” anche in rapporto alle reti del volontariato?
L’idea del bene relazionale che ho elaborato a partire dagli anni ’80 è strettamente legata al concetto e alle pratiche del volontariato e del privato sociale intesi come reti di relazioni sociali che preservano e promuovono l’umano e la sua dignità. Nel libro Scoprire i beni relazionali. Per generare una nuova socialità”(Rubbettino 2019, p. 40), viene ricordata la prima definizione di bene relazionale del 1989 che recita così: «Dire che la vita umana è un ‘bene relazionale’, significa dire che è un genere di bene comune che dipende dalle relazioni messe in atto dai soggetti l’uno verso l’altro e può essere fruito solo se essi si orientano di conseguenza. La vita umana è oggetto di godimento (e quindi di diritti) non in quanto bene privato del singolo individuo, né pubblico (nel senso tecnico moderno di accessibile a tutti), ma propriamente come bene comune dei soggetti che stanno in relazione. Tale bene deve essere definito non come funzione delle esperienze individuali singolarmente (privatamente) o collettivamente prese, ma come funzione delle loro relazioni». A mio avviso, questa è l’essenza del volontariato come bene relazionale.
Il volontariato è un bene relazionale in sé da cui scaturiscono altri beni relazionali, come l’inclusione sociale, la solidarietà, la pace, per il fatto che consiste di una rete sociale che genera e fruisce assieme di un bene comune che non potrebbe venire all’esistenza senza questa rete relazionale, la quale non ha sostituti funzionali. Il bene che il volontariato realizza non consiste tanto nell’aiuto (materiale o immateriale) dato, quanto piuttosto nello spirito della relazionalità interumana che il volontariato attua. Lo si comprende se si fa il paragone con il dono, che non si caratterizza tanto per ciò che viene donato, ma soprattutto per lo spirito che anima la relazione altruistica. In breve, il volontariato è un bene relazionale perché consiste di relazioni sociali sui generis.
La diffusione di una sensibilità più ampia sui beni relazionali è un fatto oramai assodato, secondo lei a cosa è dovuta?
Direi che la fortuna del concetto di bene relazionale, e delle pratiche che lo realizzano, sta nel fatto che indica la strada del cambiamento d’epoca che dobbiamo imboccare. Bastano due considerazioni per delinearlo. Innanzitutto, finisce l’epoca del progresso lineare come espansione indefinita del benessere materiale; perseguire il benessere materiale, oltre una certa soglia, crea dei vuoti esistenziali che solo le relazioni umane possono riempire. Il secondo indicatore riguarda il rapporto con l’eco-sistema e le risorse naturali; ci si rende conto che non è più possibile relazionarsi alla natura in modo strumentale, per colonizzarla come si è fatto in passato; occorre che l’umanità cambi il suo atteggiamento e consideri l’ambiente naturale come un partner con cui creare beni comuni, non un oggetto di sfruttamento.
Più in generale, cresce la sensibilità per i beni relazionali un po’ in tutte le sfere di vita, perché le relazioni umane sono la componente più importante degli obiettivi che chiamiamo qualità di vita, sostenibilità e coesione sociale. Questi beni consistono di relazioni interumane diverse dai modi di relazionarsi tipici delle burocrazie e dei mercati for profit. Riguardano tutte le dimensioni della vita quotidiana, dai modi di stare in famiglia ai modi di organizzare il lavoro, dalla cura dei malati e dei fragili all’impegno per attività civiche.
Ciò che intendo sottolineare è il carattere strategico del volontariato, che non è un optional, ma un’esigenza strutturale della società. Il suo compito, come ho scritto nel libro “La cittadinanza societaria” (Laterza 2000), è quello di generare un tipo di relazioni sociali di cui i sistemi societari post-moderni hanno assoluto bisogno se vogliono sopravvivere.
Generare relazioni
Cosa genera un bene relazionale?
Chiediamoci: che cosa genera una famiglia come famiglia, o una associazione di volontariato come associazione? Sono due esempi di beni relazionali. In entrambi i casi, certamente, le motivazioni soggettive delle persone sono essenziali, ma non bastano. Ciò che genera queste realtà sono delle relazioni, che sono un’altra cosa rispetto ai desideri soggettivi, e precisamente sono relazioni di fiducia, cooperazione e reciprocità che le persone debbono essere capaci di attivare per costruire una relazione-del-Noi (We-relation). Il Noi è ovviamente differente per ogni tipo di bene relazionale, come sono rispettivamente una famiglia o una organizzazione di volontariato, perché lo scopo è differente. Ciò che accomuna i vari beni relazionali sono le relazioni di fiducia, cooperazione e reciprocità, che tuttavia si concretizzano in modi assai diversi caso per caso, contesto per contesto. La sociologia chiama queste relazioni “il capitale sociale di un gruppo sociale o di una comunità”. Esiste una sinergia fra capitale sociale e beni relazionai: il capitale sociale genera i beni relazionali che, a loro volta, rigenerano il capitale sociale. Se questa sinergia dinamica e processuale non funziona, si diffondono sfiducia, frammentazione, disuguaglianze, cioè una serie di mali relazionali. La condizione per alimentare il circuito che genera beni relazionali è che queste relazioni siano volute e vissute come beni in sé, e non siano usate strumentalmente. Chi usa strumentalmente il capitale sociale (come fa il mercato capitalistico) e i beni relazionali (come fanno le burocrazie, pubbliche e private), li consuma e non li rigenera, dunque impoverisce il tessuto sociale. Per questa ragione il volontariato è essenziale, perché costituisce un argine e una sfera di rigenerazione contro l’impoverimento relazionale, i vuoti esistenziali e le inefficienze prodotte dagli altri settori della società.
A suo avviso, anche fuori delle reti del volontariato organizzato, troviamo traccia di questa nuova cultura della reciprocità e della relazione?
Certamente, ma bisogna fare delle precisazioni. La crisi della modernità, che è crisi dell’individualismo di massa da cui nascono tante patologie sociali, fa percepire il bisogno di una nuova cultura delle relazioni umane e sociali ispirata all’attenzione all’Altro.
Occorre vedere se, dove e come questa cultura relazionale stia emergendo e abbia potenzialità di svilupparsi. A mio avviso, questa esigenza si manifesta in tutte quelle situazioni in cui l’etica del profitto e della prestazione non può risolvere i problemi sociali (pensiamo ad esempio alle pandemie), perché i problemi da affrontare possono essere risolti solo con la costruzione di reti sociali dotate di una forte intersoggettività e riflessività relazionale. Occorre adottare uno ‘sguardo relazionale’ nella vita quotidiana (si veda Lo sguardo relazionale. Saggio sul punto cieco delle scienze sociali, Meltemi, Milano 2021).
Questa considerazione sociologica porta a distinguere il volontariato da altre realtà, anch’esse meritorie, che tuttavia non richiedono la relazionalità costitutiva dei beni relazionali. Mi riferisco alla beneficienza, che non richiede una precisa relazionalità fra il donatore e il beneficiato, e alla cittadinanza attiva, che è ovviamente meritoria come il volontariato, ma ha una natura differente per il fatto che esprime l’esercizio dei diritti di cittadinanza in vista di promuovere e prendersi cura dei beni pubblici, che sono bensì beni comuni, ma non sempre sono beni relazionali.
I beni relazionali sono beni comuni, ma non pubblici nel senso tecnico (cioè statali e accessibili a tutti), perché riguardano iniziative di carattere associativo che hanno scopi prosociali perseguiti associativamente con una gestione privata (anche se regolata dallo Stato). Parimenti, il volontariato come fonte di beni relazionali si distingue dall’economia civile perché sorge dalla solidarietà nelle reti primarie e secondarie del mondo vitale, mentre le imprese civili apprezzano i beni relazionali per il loro ruolo di umanizzazione del valore economico.