Le mie mani
di Teresa Scandroglio
IERI
Non sono belle le mie mani.
Non lo sono mai state.
Da adolescente è stato uno dei tanti complessi d’inferiorità che avevo.
Mi disse, “con quelle manacce..” quando feci uno sbaglio nel tagliare la stoffa, per un nuovo campionario.
Io guardai le mie mani, ed ebbi la conferma che erano veramente brutte, iniziai a piangere, dapprima silenziosa, poi dentro di me si scatenò un uragano di pensieri disperati. Non riuscivo a smettere di piangere, mi sgridò e mi fece uscire per farmi passare il dispiacere. Non capì mai il dolore che mi procurò. Avevo quindici anni.
In inverno erano sempre arrossate, piene di geloni, gonfie e doloranti.
Cercavo sempre di nasconderle. Erano meglio in estate, che per vederle ancora più belle, alzavo in alto le braccia, così il sangue defluiva, e io poi per qualche minuto le vedevo bianchissime. Le accarezzavo e sognavo che con il tempo, forse, sarebbero divenute così.
Ma fecero molto le mie mani.
Uno dei primi contatti è stato sentire nelle mie quelle della mamma, se anche erano rugose e non certo lisce, non le avrei scambiate con le più belle del mondo.
E lei me le baciava, mi diceva “con queste mani tu farai grandi cose”.
Mi insegnò a congiungerle in preghiera, e io imparai a pregare anche per lei..
Mi insegnò ad infilare l’ago, sapere cucire era un vanto da raccontare alle amiche.
Feci chilometri di “orlo a giorno” sulle lenzuola di corredo, mie e di Fiorangela.
Non mi piaceva ricamare, ma la mamma mi obbligò ad andare da una ricamatrice, per imparare, mi sforzai, ma più di tanto non feci.
Preferivo tagliare e fare vestiti.
Frequentai una scuola di taglio, andò meglio, da quel momento in poi, tutti i miei abiti e anche di Fiora li feci io. Mi piaceva, oltretutto si risparmiavano soldi per la sarta.
Alla sera, dopo la giornata di lavoro, non si stava mai con le mani in mano.
Non c’era ancora la televisione, e così c’era molto tempo per poter fare altre cose.
Mentre la mamma faceva il bucato a mano, nel mastello grande di alluminio, messo sotto il portico, e sbatteva i panni instancabile, e insaponava, e con una mano teneva fermo il panno, con l’altra stingendolo, lo passava avanti indietro, fino a quando l’acqua che usciva non era chiara, voleva dire che lo sporco se ne era andato.
Io imparai con delle piccole navette a fare il pizzo “Chiacchierino”. Era bello, la mamma era orgogliosa di vedere che le mie mani sapevano fare tanto.
Vestivo e svestivo le bambole, le accarezzavo, le coccolavo come vedevo fare la mamma con me, Le dicevo le stesse parole che io sentivo pronunciare da lei.
Le mie mani sapevano fare tanto.
Mi misero vicino una pila di sottovesti appena stirate, e con l’orologio alla mano dovevo calcolare il tempo di lavorazione, cioè piegarle inscatolarle e depositarle in magazzino. Dovevano calcolare il costo di produzione.
Le mie mani volavano a fare quel lavoro, ero bravissima, nessuno mi batteva. Se ci fosse stata una gara di velocità, senza dubbio l’avrei vinta. In meno di un’ora ne piegai più di duecento.
Ma le compagne mi sgridarono, perché da quel momento il tempo di lavorazione era basato sul mio tempo di velocità.
Nel mio intimo ero felice, volevo far vedere cosa sapevano fare le mie brutte mani.
Stetti anche al taglio, con delle grosse forbici, si tagliavano strati sempre più alti di tessuto. Venivano le piaghe sulle nocche delle dita. Si fasciavano che sembravano pronte per un incontro di box, ma non ci si doveva fermare, il dolore bisognava dimenticarlo, fino a quando si formavano dei grossi calli, allora non serviva più fasciare.
Le guardavo, erano ancora più brutte, le mie mani.
Erano diventate callose come quelle di papà, lui che lavorava il ferro, mi piaceva quando mi teneva la mano, sentivo la forza e la durezza di tanto lavoro.
Le amiche che avevano scelto di continuare gli studi, si che le avevano belle, lisce, perfette, ben curate. Loro allenavano più la parola che le mani.
Io no, mi dicevano di stare zitta e di muovere di più le mani.
Ero una macchina di produzione e basta.
Imparai a truccarmi, a correggere quel difetto dalla nascita, che contribuì ad un altro mio complesso. Già avevo occhi piccoli, poi con quelle ciglia di diverso colore, me li rendeva ancora più inespressivi.
Poi un giorno conobbi un ragazzo e le carezze amorose, mi fecero dimenticare che le mie mani erano brutte.
Le curai molto per “quel” giorno, massaggi con creme e smalto sembravano, si, più belline.
Passeggiammo avanti e indietro lungo il viale di casa, io e papà, mi teneva la mano e so che mi avrebbe voluto dire molte cose, ma dalla sua bocca non riuscì a esprimere niente. Muoveva avanti e indietro le nostre mani come se stesse parlando, ma era solo con il pensiero. Una figlia se ne andava per iniziare una vita propria, fra qualche ora mi avrebbe accompagnata all’altare e consegnata all’uomo che io avevo scelto per la mia vita.
Ma non importa quel silenzio è come se mi fosse stato fatto il più bel discorso.
E disse “baci l’anello e lo metta alla sposa….”
Guardavo la mano sinistra, che da quel giorno chi vedeva quel cerchietto all’anulare, aveva l’obbligo di chiamarmi “signora”.
Altre cose impararono le mie mani.
Amavo la mia casa. Ero in viaggio di nozze, ma il mio pensiero andava costantemente a quelle tendine bianche-gialle.
La tenevo pulita, ero troppo felice.
Imparai nuovi lavori.
“Desidera signora?” Riempivo sacchetti di biscotti e caramelle, non dovevo curarmi della bellezza delle mani, solo costantemente pulite.
Ma in inverno si rifiutavano di muoversi, si irrigidivano per il freddo, anche se avevo guanti a mezze dita. Mi venivano le lacrime agli occhi per il dolore. Meno male che non durò molto a lungo.
Imparai a confezionare bomboniere. Mi piaceva da morire.
Tulli, nastri, fiori, colori allegri, e oggetti di ogni specie.
La fantasia si scatenò, feci dei piccoli capolavori.
Non servivano mani belle, ma mani brave. Erano addestrate per tanta manualità.
Arrivarono i figli, io spesso baciavo quelle manine , e dicevo “queste piccole mani faranno molto”
Impararono la musica, e quelle manine, molto più belle delle mie, andarono veloci sulla tastiera di un pianoforte, e anche sulle corde di una chitarra.
Poi queste mani impararono a ricambiare la stretta protettiva di tanti anni prima.
I genitori anziani trovarono un appoggio sicuro sentendosi guidare da tanta fermezza.
La mamma, spesso si lasciava lavare da me, finalmente era arrivato il momento di rendere ciò che lei aveva dato.
L’ultima notte della sua vita la mia mano strinse la sua per darle conforto, forse penso di sì anche se minimo. “Ti voglio bene” dissi, e lei me la strinse di più e annuì con il capo.
Anche a papà piaceva lasciarsi guidare da anziano. Mi fece “ciao” con la mano il giorno prima di andarsene per l’ultima volta.
Arrivò la prima nipotina, una delle prime cose che feci, le presi le manine ancora raggrinzite e le dissi “faranno molto queste mani”.
Vorrei tanto rimanere per vedere.
E ricominciai a cambiare pannolini e sfogliare piccoli libri, e raccontare storie.
Con queste mani ripresi a fare pizzi e golfini. Lei era la mia principessina, doveva avere le cose più belle.
Dovrà un giorno poter dire: “questo l’aveva fatto la nonna”.
Quando arrivò la seconda nipotina, le ribaciai più volte quelle piccole manine, ma dissi solo con il pensiero “Faranno molto queste mani”, la parola se ne era già andata.
Sono ancora brutte le mie mani ma non me ne curo più.
OGGI
Non fanno più molto le mie mani.
Non sanno più piegare la biancheria, cambiare l’acqua ai fiori, allacciare bottoni, ma sarebbe troppo lunga la lista.
Lavarmi, vestirmi, si rifiutano di ubbidirmi, sì, sono diventate mani disubbidienti.
Non so fino a quando mi permetteranno di scrivere. Sarebbe per me, una tragedia, sono troppo importanti le mani.
Accarezzo le piccole, non devono sentire odore sgradevole sulle mani, le profumo, devo lasciare un buon ricordo.
Ma non so più guidarle tenendole quelle manine desiderose di una guida sicura.
Sono una nonna a metà.
Ora sono le mani dei miei figli e di mio marito che mi accarezzano, quelle carezze valgono più di mille parole.
Non sanno fare più niente le mie mani.
DOMANI
Che importa se le mie mani saranno brutte.
Saranno incrociate sul petto, assomiglieranno a quelle della mamma.
Sarò felice un giorno di poterle congiungere con le sue.
Ma non le cambierei con le più belle mani del mondo.