Il mio Superman
di Martina De Cubellis
Quando è arrivata la diagnosi, ho detto a mio padre che sicuramente i medici avevano sbagliato, che erano stati frettolosi, che lui stava “bene”, tutto sommato. Abbiamo deciso di consultare altri pareri e dopo un paio di mesi di ulteriori visite, eccola di nuovo, scritta nero su bianco: Sclerosi Laterale Amiotrofica. “Vedrai che sarà una forma meno aggressiva” dicevo a mio padre, senza alcuna competenza medica, mossa solo dalla cieca convinzione che non poteva capitare a lui, a noi. Papà è sempre stato il mio eroe, il mio superman, la persona a cui mi sono rivolta fin da bambina per ogni minima difficoltà, per avere il suo conforto e il suo consiglio. Ricordo bene il momento in cui ho dovuto ammettere che papà stava male davvero. Era una sera di fine estate, papà e mamma erano stati a cena fuori con i loro amici. Mio padre, uomo atletico e in salute di 58 anni, ha aperto la porta di casa senza fiato e si è seduto sul divano, perché la rampa di scale per entrare in casa, lo aveva distrutto. Ricordo che in primo momento, rifiutando ancora la sua malattia, ho provato un gran fastidio perché papà aveva interrotto la visione di un film che stavo guardando. Ho iniziato a fare i conti con la nostra nuova realtà. Papà stava male sul serio. Nel giro di un anno mio padre ha subito la tracheostomia e ha perso completamente l’uso delle gambe e delle braccia. Lo vedo soffrire, lottare e resistere ogni giorno. So che lo fa per me, mio fratello e per mia madre. Qualche giorno fa i miei studenti mi hanno chiesto cosa sia la SLA e mi è venuta l’idea di raccontare la mia piccola esperienza, sperando di poter dare il minimo conforto a qualcun altro. Il mio punto di vista è quello di una figlia, non di una persona affetta da SLA e il mio dolore è senz’altro diverso da quello di mio padre, è un dolore “esterno”, ma forte e devastante, perché quando un familiare si ammala, si ammala tutta la famiglia. Ho sempre pensato di essere una persona molto fortunata, ho un padre meraviglioso, una famiglia amorevole, una casa tutta mia, il lavoro dei miei sogni, eppure nello stomaco c’è un buco enorme, un dolore che non riesco a esprimere perchè non oso permettermi di provare dolore, visto quant’è grande quello di mio padre. Ogni giorno mi chiedo come posso allietare le sue giornate e allora cerco di prendermi cura di lui, della sua felicità e della sua dignità. Cerco di essere presente, di “consolarlo”, ma soprattutto, di farlo sentire ancora un uomo, una persona, perché questa malattia così crudele prova a togliere la dignità a chi ne soffre, priva delle braccia, delle gambe, della parola, dei sogni e delle speranze. Imprigiona l’anima nel corpo. La mia speranza è che un giorno leggere la diagnosi su un foglio bianco non sarà più una condanna, che ci sia la possibilità di lottare. Grazie al centro NEMO del Policlinico Gemelli, a tutti i familiari e gli amici che non ci lasciano mai soli.