Il baluardo della dignità
di Marianna Burlando – Racconto vincitore del XXIII concorso letterario del “Premio Nazionale di Poesia e Narrativa Tre Ville” sezione Aisla
Cambia tutto. Tutto quello che faceva di quella persona, la persona di prima. SLA, acronimo di malattia rara – che tanto rara poi non è – orizzonte di vita all’insegna della progressiva dipendenza dagli altri, dai farmaci, dagli ausili, dalle macchine.
SLA, Senza La Autonomia.
Perché per gradi o repentinamente si perdono funzioni e abilità che inchiodano alla sedia, chiamata comoda – comoda per chi? – che costringono alla poltrona, che bloccano a letto.
SLA, Senza La Autonomia.
Sì, proprio così, perché intralcia la parola sino a inibirla, ostacola la deglutizione sino a bloccarla, riduce il movimento sino ad azzerarlo, soffoca il respiro sino a impedirlo.
Limiti pesanti che innescano un processo di non ritorno.
Non c’è prevenzione, non c’è vaccino, non c’è guarigione, c’è solo da scendere a patti, senza eroi e senza santi. La dignità a baluardo.
Ma faccio un passo indietro, a quando raggiunsi mamma Maria per il funerale di papà e lì, per la prima volta, mi accorsi che il tono della sua voce era diverso, impastato, alterato. Non sembrava lei. “Sarà il momento, sarà la commozione, è il dolore” commentavano i parenti e gli amici, secondo loro tutto imputabile alla circostanza del lutto in cui si inabissava un pezzo consistente della sua vita. Io scuotevo la testa e un campanello di allarme componeva altri scenari, mi faceva immaginare altre origini. “Vorrei sbagliarmi” mi dicevo senza convinzione. Restava solo da indagare per approfondire, per capire. E capii, capimmo, un anno e mezzo dopo con la diagnosi a confermare i sospetti, a dare un nome al respiro affannoso, alla parola che inciampava così come succedeva al passo, cauto e breve.
Sclerosi Laterale Amiotrofica a partenza bulbare, una sciabolata in pieno viso perchè non si è mai peparati abbastanza anche quando te la aspetti. Di colpo era inverno a metà settembre.
Occorreva attrezzarsi e organizzarsi nonostante l’ospite fosse indesiderata, nonostante la convivenza fosse impari e dal risultato annunciato.
La mia casa divenne un’altra casa. Divenne il luogo della cura con i carrelli per le medicazioni, le forniture mensili dei presidi, le traverse e i panni accatastati, i rifiuti speciali. Una piccola casa con un cuore pulsante, la stanza più grande a centrale operativa con monitor, sensori, apparecchiature a cui non doveva mancare l’energia elettrica. MAI, nonostante i temporali. MAI, nonostante le sospensioni per lavori sulla rete. MAI, nonostante gli imprevisti, parola bandita dal lessico del civico 30 con parcheggio a strisce gialle per disabili e il montascale. Tutto doveva essere pianificato con dispositivi di riserva, batteria esterna, generatore di corrente, scorta di gasolio, ambulanza privata allertata.
Un piccolo ospedale e una piccola rianimazione con il personale di assistenza che imparai presto ad apprezzare. Nel mentre curava lei, si prendeva cura di me. Un esempio? Farmi la doccia solo durante i turni degli operatori perché la saliva e il muco da broncoaspirare non aspettano il tempo di infilarsi in fretta l’accappatoio e precipitarsi gocciolante con lo schampoo in testa. Quando l’allarme del ventilatore suona, bisogna essere già lì e intervenire rapidamente.
Mi mancava il mondo precedente fatto dei mie ritmi, dei miei interessi, delle cose al loro posto, ma dovevo accogliere tutto fino in fondo per umanità e dignità che la malattia, quando arriva, colpisce duro.
Mamma Maria è sempre stata una donna realistica. In tempi non sospetti se capitava di parlare di disabilità lei ribadiva l’importanza di poter scegliere quanto e come convivere con i limiti. Dunque il suo rifiuto alla tracheotomia non mi stupì, una decisione irrimandabile ora che la ventilazione meccanica non invasiva non bastava più, ora che il servizio delle emergenze aveva imparato il nostro indirizzo. Ora che io avevo imparato a monitorare la saturazione, a usare l’ambu, a rimanere fredda e centrata: il mio ruolo era di rispettare le sue decisioni e di fare del mio meglio per contenerne l’impatto concreto ed emotivo.
Inaspettatamente, dopo una notte meditabonda, mamma Maria mi comunicò a gesti che voleva sottoporsi all’intervento, voleva provare ad andare avanti.
Negli anni successivi mai si pentì della scelta, lo ribadiva anche a crisi respiratorie gravi superate. Arrivò a festeggiare il suo ottantesimo compleanno con i parenti più stretti che percorsero l’intera penisola per esserci, tutte intorno le sue assistenti e lo spettacolo a sorpresa del mago che la divertì con trucchi e incanti, le fece sorridere gli occhi e gioire il cuore. La sera, andati via tutti, mamma Maria mi confidò che quello era stato il compleanno più bello della sua vita.
La SLA salda malato e caregiver in una interdipendenza stretta, ancor più cogente nel mio caso perché unico familiare in regime h24 e perché psicologa, tanto da vedere esclusa tale figura nel Piano di Assistenza Integrata. “Non ce n’è bisogno, c’è la figlia“…sì, ma chi si occupa della tenuta emotiva e dell’usura mentale del caregiver? Ho continuato a coltivare le mie nicchie salvavita, ho continuato a lavorare, a essere figlia, a intessere relazioni efficaci con il personale assegnato, tutto giovane e motivato ad apprendere, anche i molti alle prime esperienze domiciliari scaraventati faccia a faccia con la SLA. Perché la cura alla persona con malattia cronica degenerativa di terzo livello è, su tutto e prima di tutto, relazione di condivisione, ascolto, empatia e rispetto delle routine basilari, residuali, vitali.
Senza cibo si dura un po’, senza acqua di meno, senza aria per niente. Salvo barattare la propria voce, i propri gusti culinari, il ritmo del proprio respiro e farsi circuiti, sacche, sonde, prolungamenti di pompe.
Un buco e un tubo in pancia portano acqua e nutrienti; un buco e un tubo in gola portano aria a pressione controllata, e altro ossigeno se necessario.
Per mondo, una stanza. Poi meno ancora, solo lo spazio che lo sguardo dalla testa immobile riesce a cogliere, sempre che gli occhi non si arrossino, non si offuschino. E rimane il letto. Il letto, dove si mangia il menu unificato, quel preparato giallo che lento cade dalla bottiglia appesa alla pancia aperta; il letto, dove si dormono le notti e i giorni di tutti i lunedì, martedì, mercoledì, giovedì, sabato, domenica e festivi, ah, anche i venerdì, che i giorni sono tutti uguali; il letto, sempre il letto, dove si espletano le funzioni corporali. Crudezze quotidiane in due metri per uno. SLA, malattia rara, che non sta per pregiata. Sta per diagnosi per sottrazione, per farmaci palliativi, per interventi atti a rallentare la paralisi progressiva sino al blocco totale. Spesso con la mente lucida, la coscienza sveglia, la memoria in ordine così da vedere e subire cosa smette di funzionare, cosa non risponde più al proprio volere, quanto ogni giorno si perde per sempre. Quanto ogni giorno si diventa altro da sé.
Esserci e faticare a riconoscersi, ritrovarsi locked-in mentre nel resto del mondo imperversava il lock-down.
Fu la fine di abbracci, giochi, carezze e sorrisi aperti, tutto imprigionato e nascosto da mascherine, visiere, tute, calzari e guanti.
E fu la fine anche della familiarità consolidata con le infermiere, le oss e le fisioterapiste di sempre mandate nelle trincee ospedaliere per l’emergenza Covid. Mentre nella rianimazione domestica del civico 30 iniziava la girandola dei nuovi operatori allo sbaraglio.
Tutto troppo per i livelli di qualità di vita fissati da mamma Maria per proseguire. Decise di dissentire, di sottrarsi al furto della relazionalità che cura e dello scambio umano che sostiene.